Ferrari Rex, dal libro, un film

Il celebre volume Ferrari Rex di Luca Dal Monte darà vita alla serie Apple Tv prodotta, fra gli altri, dal premio Oscar Paolo Sorrentino. E il perché lo spiega lo stesso autore: “Senza dubbio era uno dei pochi, pochissimi, italiani da esportazione, al pari di un Fellini e di un Gianni Agnelli, senza subbio più simile al primo che non al secondo nonostante un mondo, quello dell’automobile, in comune con l’Avvocato – “i film,” diceva, “li guardo a distanza alla televisione. Al cinema non vado da vent’anni. Un uomo che si dichiarava sorpreso dalla discesa in campo politico di Umberto Agnelli, candidato della Democrazia Cristiana alle elezioni di giugno nelle quali la DC temeva il sorpasso da parte del Partito Comunista – “gli ho parlato due volte in vita mia, a distanza di 18 anni l’una dall’altra,” confidava, ma “fa bene ad affrontare in prima persona i gravi problemi connessi alla nostra industria piuttosto che rivolgersi ai consueti uomini politici che il più delle volte assumono atteggiamenti non conformi all’interesse generale perché insufficientemente edotti se non digiuni.”

Ferrari era un personaggio straordinario. Che Ferrari Rex racconta nel dettaglio. Il Drake a quasi ottant’anni era rimasto il lettore avido e disordinato di sempre. Il primo autore per il quale aveva provato interesse era stato Stendhal, ma continuava ad essere “un estimatore di Leopardi e di D’Annunzio, dei Pensieri e scritti di Einstein, di Kafka.”

Seguitava a prediligere l’anima ribelle e la prosa raffinata e semplice al tempo stesso di Giovannino Guareschi e confessava di avere “un debole per le biografie.” Divideva con una moglie sempre più debole e sempre più distante l’appartamento al primo piano del palazzo dei Cento caproni che si affacciava su largo Garibaldi. L’appartamento era spazioso, relativamente austero negli addobbi e comunque più comodo che elegante. Ci viveva con Laura dal 1960 anche se ognuno dormiva in una camera separata e lui, la notte, chiudeva a chiave la propria. 

La mattina faceva colazione bevendo una scodella di caffellatte e sbocconcellando il pane del giorno prima. Per l’ora di colazione aveva letto i maggiori quotidiani nazionali, la stampa locale e quella sportiva. Leggeva La Stampa – il quotidiano di Torino e della Fiat – per sapere cosa aspettarsi dall’ingombrante socio azionario; e sfogliava regolarmente i quotidiani comunisti – Unità e Paese Sera – perché voleva sapere cosa pensava il nemico o, quantomeno, coloro che manovravano i sindacati e i sindacalisti con i quali era ciclicamente costretto a dialogare. 

Poi andava dal barbiere, dove si sedeva sempre nella medesima sedia di pelle rossa – la prima entrando, quella accanto alla vetrata – e si faceva radere. Era il rito della mattina ed erano quarant’anni che lo celebrava – domenica esclusa. Poi Dino Tagliazucchi, che sette anni prima aveva preso il posto di Peppino Verdelli, lo accompagnava al cimitero per la visita quotidiana alla tomba di Dino.

Nonostante gli anni che iniziavano a pesare e la proposta di entrare in automobile qualora lo avesse voluto, Dino parcheggiava all’esterno del cimitero e, l’uno accanto all’altro, percorrevano i viottoli in ghiaia e salivano i gradini fino alla cappella. Entravano e Dino gli porgeva una sedia. L’accompagnatore usciva e Ferrari rimaneva solo con i suoi pensieri e i suoi morti – Dino, naturalmente, e poi la madre, il padre e il fratello, Dino pure lui. Erano tutti attorno a lui dietro a lapidi di un rosso cupo. Chinava il capo, lo sguardo fisso per terra, le mani tra i capelli come a sorreggere la testa, ormai completamente bianca. Mai una parola. Quando Dino rientrava, insieme tornavano in silenzio alla macchina e prendevano la via di Maranello, attraversando quei piccoli centri che Ferrari attraversava da più di trent’anni e aveva visto crescere poco alla volta e poi sempre più velocemente. A metà mattina era a Maranello. Il primo che incontrava era Franco Gozzi, che aveva sposato la figlia del barbiere, era con lui da quindici anni ed era molto di più del suo capo ufficio stampa. 

Uscito Gozzi, che comunque non era mai distante e sarebbe rientrato nel suo ufficio più volte, iniziava la trafila quotidiana fatta di riunioni – poche – di colloqui – tanti – e di telefonate – tantissime, come se, dall’eremo in cui si era auto recluso, avesse eletto il telefono a mezzo di collegamento con il resto del mondo. Una pausa per un pranzo poco più che frugale nella saletta privata al Cavallino, solitamente con Gozzi, sempre con Dino, a volte con qualche ospite. Una seconda visita alla fabbrica; la prima la faceva al mattino. Un salto a Fiorano se le monoposto quel giorno giravano. E nel mezzo, urla, sbuffi, battibecchi, sfuriate, ma anche lunghi e lucidi soliloqui, la preziosa ricerca di episodi che si perdevano nella sua notte dei tempi privata e infinita, il riaffiorare di un viso noto, il parlare di Nuvolari o di Campari o di don Vincenzo Florio come se si fosse intrattenuto con ciascuno di loro solo il giorno prima.

Quando a Maranello scendeva il crepuscolo e le ombre si facevano sempre più lunghe e il sole ormai scomparso illuminava a occidente i profili sempre più lontani degli Appennini a meridione di Reggio e poi di Parma, Ferrari sentiva stringere tutto attorno la morsa della solitudine. E quando veniva il tempo di andare a casa, cercava di rimandare. Una volta, ancora solo qualche anno prima, avrebbe trovato tra i suoi una vittima sacrificale con la quale andare in una della tante trattorie tra la campagna e il crinale che conosceva così bene. Ma ora l’età e la salute – buona, certamente, ma da tenere sempre sotto controllo – gli avevano imposto orari da rispettare e regimi alimentari. E allora non gli rimaneva che chiamare Dino, che era l’unico rimasto, e con lui si rimetteva in macchina percorrendo in senso inverso la medesima strada della mattina. 

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